Gemma Walsh

Gemma Walsh

Questa puntata di Kiwi-libri e Kiwi-autori sarà un po’ diversa dalle altre e forse sconfinerà un po’ in Non Leggi tutto

Gente di Cinema: Giulia e Filippo a Wellington

Gente di Cinema: Giulia e Filippo a Wellington

A Wellington Giulia a Filippo hanno un lavoro affascinante, una bella casa loro e un vasto giro di conoscenze ed amicizie. La loro potrebbe essere giustamente definita come “una storia di emigrazione di successo”. Un successo conquistato con tenacia, perché – nonostante fossero partiti dall’Italia con i ferri del mestiere in tasca – la strada è stata tutt’altro che in discesa. Soprattutto dal punto di vista lavorativo.

In fin dei conti, erano i soliti ragazzi giovani con un Working Holiday e Giulia, come quasi tutti gli italiani arrivati qui con un visto di vacanza-lavoro, nei primi anni per lo più lavorava nella cosiddetta Hospitality. Insomma: “giovani, carini e poco occupati”.  Però, a differenza di molti altri, c’erano dei sogni nel cassetto.

C’è quindi da crederci quando Giulia dice che all’inizio è stata dura.  E’ stata dura, ma – aggiunge – era felice. Si sa, il tempo è galantuomo e a distanza di anni, quando finalmente i tasselli sono andati tutti al loro posto, guardi al passato con un po’ di indulgenza. Perché sì certo: un lavoro è un lavoro, uno stipendio è importante, ma i desideri erano altro rispetto al vendere zuppe o lasagne.

Quando è atterrata in Nuova Zelanda, Giulia aveva un portfolio lavorativo di tutto rispetto potendo vantare diverse esperienze importanti come quella presso la Austin Film Society, in Texas, e le numerose collaborazioni in Mediaset. Eppure ha faticato.
“L’ostacolo più grosso è stato non avere la residenza, da quando l’abbiamo ottenuta è stato tutto più facile: ora sono già 3 anni che lavoro in uno studio di post produzione e mi trovo benissimo, era il mio background in Italia e fortunatamente sono riuscita ad metterlo a frutto anche in Nuova Zelanda.”
Sì, “fortunatamente”. Perché contro una fortuna avversa non si può quasi nulla, però la costanza e la determinazione sicuramente hanno aiutato!

L’idea di partire è emersa durante una serata invernale in pizzeria. Oh, non illudetevi: non era affatto una cena romantica tutta coccole e occhi dolci. Si trattava piuttosto di una pizza riparatrice. Nel frigorifero di casa si sentiva l’eco.
Gli sembrava di vivere per lavorare. O meglio, per lavorare e guidare nel traffico di Milano. “E no, così non va!”
Allora, mappamondo in testa, Giulia e Filippo iniziano a depennare i paesi dove non si parla inglese, perché già emigrare è dura, se ci metti anche  il fatto di ricominciare da capo anche con la lingua, be’, allora finisci davvero per complicarti la vita!
Regno Unito ed Irlanda scartati subito perché troppo vicini a casa.
Stati Uniti no, perché già sperimentati.

Il Canada è stato per un po’ una possibile meta, perché Filippo è un grande amante della natura e adora pescare, ma alla fine ha prevalso l’idiosincrasia di Giulia per il freddo. Così, tra Australia e Nuova Zelanda, la scelta è ricaduta sul paese in cui – tendenzialmente – era più semplice ottenere un visto di lavoro.

E, quindi, Nuova Zelanda è stata! Decisione presa nel tempo di una pizza e poi un anno intero per metterla in pratica.
Da quella famosa cena, hanno iniziato a lavorare per risparmiare.

Sono partiti dicembre 2005 con un Working Holiday destinazione Auckland. Se quella era la Nuova Zelanda, ecco… forse avevano sbagliato: tutti quei palazzi, quel cemento, il traffico. E allora via! Verso altri lidi! Quattro mesi on the road dal punto più settentrionale di Cape Reinga fino al profondo sud nella Steward Island per scoprire quale città neozelandese faceva per loro, quella che rispondeva “sì!” alla domanda implicita che si portavano dietro: “Ma tu, qui, ci vivresti?“.

Perché va bene amare la natura e la tranquillità dei paesini bucolici, però anche un cinema, che so, un teatro mica avrebbero fatto schifo.
Con Wellington è stato amore a prima vista. Nonostante il vento!

Wellington ha il fascino della capitale senza averne le dimensioni e lo stress. Moderna e allo stesso tempo tradizionale: ci si saluta con gli sconosciuti e si ringrazia l’autista del bus quando si scende; si scambia sempre una chiacchiera con il cassiere, il cameriere o l’impiegato della banca ti chiedono come stai, come in un un paese di periferia. Eppure è la capitale, multietnica e multiculturale, viva e frizzante, dove puoi perderti nei festival del cinema francese e italiano, festeggiare il capodanno cinese, sperimentare tutte le cucine del mondo e divertirti alla dimostrazione di capoeira brasiliana.
Lo abbiamo già detto, all’inizio non è stato facile. Il lavoro dei sogni non arrivava e ad integrarsi ci si mette sempre un po’. Si deve ricominciare tutto da capo, a fare amicizia, a capire dove fare la spesa, quale compagnia elettrica usare, perdersi per la città perché ancora non ci si orienta e sbagliare autobus finendo chissà dove. Ma è solo questione di tempo. Un po’ alla volta gli amici te li fai, kiwi, russi, coreani, cileni, canadesi malesi, indiani e, ovviamente, italiani! La tua costanza viene premiata ed eccoti a lavorare dove volevi. E infine arriva anche la casa, proprio come la desideravi, vicino a tutto, vicino al mare, al lavoro e ai negozi e il ricordo del pendolarismo milanese – tra autobus, metropolitana, macchina e nebbia – diventa sempre più un ricordo sbiadito.

Quello che invece non ci si riesce proprio a dimenticare è dove sta la leva delle frecce nelle auto italiane: ogni volta che Giulia deve svoltare, ecco che si dà una bella spazzata al parabrezza!

Tornerete prima o poi a vivere in Italia?

Giulia alza le spalle. Tutto può essere, risponde. Ci sono piccole cose che le mancano, come comprare un Dylan Dog in edicola o ascoltare il motoGP alla domenica pomeriggio con il commento di Guido Meda, ma lo stile di vita che ha trovato a Wellington, quello per ora non lo cambierebbe con nulla al mondo.

Muoversi a Wellington

Muoversi a Wellington

La nostra piccola capitale non è più così piccola e deserta.

Prima conseguenza diretta: c’è molta più gente in giro, la sera per strada incontri persone invece di tumbleweeds rotolanti, i ristoranti stanno aperti più a lungo e finalmente alle 20.30 la sera non siete più gli ultimi clienti del locale, mentre intorno a voi i camerieri puliscono per terra e capovolgono le sedie sui tavoli.
Seconda conseguenza diretta: trovare parcheggio sta diventando una battaglia.

Perciò ecco un po’ di informazioni spicciole su come muoversi  a Welly:

Parcheggi e dischi orari, ovvero l’omino col gesso.
I parcheggi in città si dividono in privati, dove si paga ad ora e non c’e’ limite di sosta ma si spende di più, e pubblici. I parcheggi pubblici sono gratuiti durante tutto il weekend, nei giorni di festa e dopo le 18 di sera, ma nelle zone più centrali il venerdì si paga fino alle 20. La durata massima della sosta però non può mai superare le due ore (*). Il prezzo e’ di 4 dollari l’ora e la sosta minima è di mezz’ora. Ovviamente tariffe e durata sono riferite al centro, le cose cambiano uscendo da Welly.

(* e qui apro subito la parentesi, perché ancora noi non si è capito se questa cosa delle due ore e’ valida anche per la sera o solo durante il giorno… fatto sta che per ora – toccando ferro o legno o ciò che più vi aggrada – non ci è mai arrivata una multa per soste più lunghe di sera, però ci sta che sia solo fortuna, in quanto parrebbe che il limite delle due ore sia sempre in vigore)

Mettiamo quindi che uno parcheggi in un giorno di festa: non deve pagare e quindi non deve mettere il biglietto con l’orario di scadenza del parcheggio sul parabrezza. Come fa il simpatico addetto al traffico a sapere se si e’ parcheggiati da più di due ore o no? Si mette il disco orario, direte voi. Ebbene no! Troppo facile, qui le cose si fanno in maniera più estemporanea: il nostro ausiliare del traffico kiwi è dotato di bei gessetti colorati con cui fa un segno sulle ruote delle macchine quando passa da lì. Se due ore dopo, quando ripassa di lì, trova una macchina col segno, le fa la multa. E sì, è capitato che una macchina si sia presa la multa anche se era stata spostata in un altro parcheggio. E sì, ancora, capita che basti spostare la macchina di mezzo metro nel parcheggio per nascondere il segno…eh. Paese che vai, usanza che trovi!

Ah, altro avviso per i provetti guidatori: qui i controlli dell’alito per la guida in stato di ebbrezza sono molto frequenti. Da dicembre 2014 i limiti di alcool sono di 0.5g (per 100ml di sangue), che più o meno equivalgono ad un bicchiere di vino o una pinta di birra, ma ovviamente il limite alcolico dipende da persona a persona. Sotto i 20 anni invece si applica la tolleranza zero.

Metlink, ovvero tutto il resto.
Ci sta quindi che non vogliate prendere la macchina per andare in centro, sia perchè sta cosa delle due ore non vi va giù, sia perché magari ci sta che vogliate farvi più di un paio di birre. Come si arriva in centro?
C’è solo l’imbarazzo della scelta, in quanto la rete di mezzi pubblici di Wellington, il Metlink, annovera fra i suoi tipi di trasporto bus, treni (ebbene sì, l’unica città in NZ con una rete di treni metropolitana!), traghetti e pure la storica Cable Car.

Sul sito del Metlink potete trovare un sacco di informazioni utili su orari e tariffe. Gli abbonamenti mensili dipendono dalla zona in cui siete e vanno da $50 a $400. In più si possono fare combinazioni di abbonamento treno + bus etc.

Fra l’altro un modo molto pratico di pagare per i trasporti è quello di comprarsi una carta Snapper, ricaricabile online, ma anche in vari negozi fra cui supermercati e dairies (i negozietti/minimarket aperti fino a tardi). Con la Snapper potete non solo pagare la vostra corsa sui mezzi pubblici, ma pure i parcheggi in centro e da poco tempo anche i biglietti per la cable car.

Tesoro, Mi Si Sono Biforcuti i Ragazzi

Tesoro, Mi Si Sono Biforcuti i Ragazzi

Molto spesso ci capita di ricevere messaggi di genitori dubbiosi e preoccupati per le sorti linguistiche dei propri figli nel caso, in un futuro prossimo, la famiglia decidesse di emigrare in Nuova Zelanda.
Le domande più frequenti riguardano lo sradicamento linguistico e culturale, la difficoltà di interagire con gli altri bambini, i tempi necessari per imparare un’altra lingua, i risultati a scuola e le conseguenze sul percorso educativo.

Lasciatevelo dire…troppo onanismo mentale. Lecito, ma sempre di onanismo si tratta.

Una breve introduzione sulla situazione demografica della Nuova Zelanda: in questo paese vivono poco meno di 4,6 milioni persone, per una densita’ media di 17.2 persone per km quadrato… Contando che ad Auckland ci vivono 1,4 milioni di persone, a conti fatti siamo veramente pochi su un territorio relativamente esteso.
Detto questo, e passando ai fatti rilevanti, in Nuova Zelanda il 74% della popolazione arriva dall’Europa, il 15% e’ di origine Maori, il 12% (in crescita) dall’Asia e il resto è di origine Pasifika (Tonga, Cook, Fiji, Samoa, Vanuatu, Rarotonga…). Ogni anno si aggiungono circa 100mila persone provenienti da altri paesi: migranti in cerca o già in possesso di un’offerta di lavoro, tra cui molte famiglie con bambini, e rifugiati, anch’essi con bambini al seguito.
Da questi dati si intuisce che la percentuale di persone che entrano in Nuova Zelanda con l’intenzione di stabilirvisi e la cui prima lingua non è l’inglese è abbastanza elevata, si aggira attorno all’80% se non di più.
Magra consolazione il non essere gli unici non-English speaker certo… ma ciò significa anche che, di fronte a questi numeri, il governo neozelandese mette a disposizione tutta una serie di soluzioni al problema linguistico disponibili per i migranti da 0 a 99+ anni.

Da linguista di professione potrei sbizzarrirmi e annoiarvi parlando dei vari tipi di bilinguismo, a seconde dell’età e della lingua parlata in famiglia, ma credo che sia molto meglio e molto più tranquillizzante sentire le esperienze di famiglie normali che vivono questa realtà tutti i giorni, perché in fondo è così che si prendono le misure su sé stessi.

Ma andiamo con ordine: i bambini da 0 a 4 anni. Eta’ prescolare.
Arrivati in Nuova Zelanda e sistemate le prime cose più urgenti (casa e auto, supponendo che il lavoro sia già più o meno andato in porto) sarebbe una buona idea portare i bambini in età prescolare ad un playgroup, più o meno assiduamente (2/3 volte a settimana), anche a playgroup diversi dato che di norma funzionano solo un giorno a settimana a seconda del quartiere e della località. Se i bambini sono già in età da Kindergarten (2+ anni e fino al compimento dei 5), iscriveteli senza nessun problema. Di norma si possono scegliere i giorni e le ore, magari vorrete procedere con calma e iniziare con 3 ore al giorno per 4 giorni e poi via via aumentare. Questa progressione è piùche altro uno scrupolo per placare i sensi di colpa di una mamma apprensiva che si sente male al pensiero di lasciare un bimbo piccolo che non parla inglese in una realtà linguistica sconosciuta. E poi dipende anche dal carattere del bambino. Molto importante è il colloquio preliminare con le maestre: sicuramente non sarà il primo bambino che non parla inglese che vedono, nello stesso kindergarten potrebbero essercene almeno altri 5. Sanno cosa stanno facendo e dovete fidarvi di loro. Parlate dei vostri dubbi e delle vostre paure, vi faranno a loro volta delle domande e da quel punto la palla passa a loro. E fino a qui si parla di genitori e delle loro paure… certo perché i bambini di solito se ne fregano. Loro vedono un posto con tanti giochi e un bel giardino e che quella gente là non sia comprensibile… be’ passa decisamente in secondo piano.

Mio figlio ha iniziato col botto, tutti i giorni 6 ore dalla seconda settimana in Nuova Zelanda. Aveva appena compiuto i 2 anni, era il più piccolo di tutti. Essendo il terzo di 3 non ha problemi di timidezza e si è da subito buttato nel mucchio. I suoi insegnanti si erano premuniti di google translator e ogni tanto gli chiedevano “Acqua?”, “Pipi’?”, “Fame?” e lui rispondeva in italiano con le parole che sapeva, usando molto i gesti e le smorfie quando capiva che il messaggio non arrivava. Il linguaggio del corpo e il contatto fisico sono importanti, non capendo un “Look!” o un “Come here!’” gli insegnanti indicano, disegnano, gesticolano. I bimbi poi imitano, quindi quando l’insegnante blatera parole senza senso e tutti corrono a prendere il pranzo… be’ in una settimana imparerà il significato di “Lunchtime!”. Dopo tre mesi mio figlio parlava un inglese di base, mettendo ogni tanto parole in italiano senza accorgersene, gli altri non capivano quella parola, ma lui non sembrava preoccuparsene. A quell’età infatti i bambini non riescono ancora a comprendere la differenza tra una lingua e l’altra, quindi usano le parole che sanno a seconda della lingua che usano in determinati ambiti. Se a scuola giocano con i Lego assiduamente, i Lego verranno poi associati all’uso dell’inglese, lo stesso per i turni con l’IPad, per la costruzione della pista del trenino, per l’angolo dei travestimenti. Le esperienze che faranno in inglese, con i relativi termini rimarranno impresse nella loro testa come tali in quella particolare lingua. Viceversa inseriranno in un discorso in inglese le parole che avranno imparato dalle esperienze ‘in italiano’ come ‘non tirare giù il finestrino’, ‘lavati i denti e vai a nanna’, ‘preparati per il bagno’.

Mano a mano il loro mondo linguistico si allargherà e a seconda della prevalenza di una o dell’altra lingua, una delle due prenderà il sopravvento… e la lingua dominante sara’ l’inglese.

Cosa dovrebbe succedere in famiglia in tutto questo tempo?

Di solito la coppia di italiani continua a parlare italiano, che è una cosa che io personalmente considero importante. Non per ‘conservare la cultura’ o ‘trasmettere i valori’…ma perché’ la lingua madre, quella spontanea è la lingua che deve essere usata per comunicare coi propri figli, fa bene al rapporto e fa bene alla comunicazione. Soprattutto è l’unica via da percorrere se volete che i vostri figli capiscano e parlino l’italiano in futuro. Dunque vi suggerisco di non farvi prendere dall’ansia, non passate all’inglese per comunicare con i bambini solo perché’ credete di ostacolare con l’italiano l’apprendimento dell’inglese, dentro alle loro teste c’è spazio per un altro paio di lingue, tranquilli.
Dalla fase che chiamo ‘Frate Salvatore’ si passa a ‘Non capisco mio figlio quando mi parla’, infatti non sapendo articolare bene le parole anglosassoni procederà per imitazione e qui siete fottuti: sarete voi a dover passare ai gesti. Quando capite cosa diavolo vogliono dirvi ripetetelo in inglese e poi in italiano e proseguite tranquilli in italiano, di modo che si ricordi il termine, dato che evidentemente in inglese lui l’aveva, voi no.
La fase successiva è quella del mantenimento dell’italiano: vi troverete davanti un anglofono capace di destreggiarsi in molte situazioni (da bravo quattrenne), che però perde i pezzi dell’italiano appena vi distraete un attimo. E’ una fase ilare: ‘Can I do the bagno?” quando prima era ‘posso fare il bagno’, ‘Should I pull up the finestro?’… neanche più ‘finestrino’ riesce a dire! E via così. Vi parlerà solo più in inglese, rispondetegli in italiano e assicuratevi che abbia capito… in tante occasioni mi capita di sgridare ‘uno dei’ in italiano con la foga del momento e poi di fronte alle loro facce perplesse mi tocca di ri-sgridarli in inglese con foga ormai esaurita ma comunque necessaria. Cazziatoni bilingui.
Verso i cinque anni inizieranno a leggere e a contare, per il momento non interferite con l’inglese buttandoci in mezzo lezioni di lettura parallele in italiano, aspettate magari ancora un anno e fate riferimento al fatto che in maori le vocali si leggono come in italiano per affrontare letture italiane leggermente più facili rispetto ad un loro coetaneo.

Il bilinguismo perfetto a questa età’ è un traguardo difficile, ma è possibile usando costanza e attenzione, per i genitori è un lavoro che richiede molta energia.

Vivendo in questo paese con grande percentuale di multiculturalismo mi è capitato di incontrare famiglie di tutte le provenienze: combinazioni kiwi/greche, turco/russe, italo/kiwi, franco/kiwi, italo/francesi. Tutti i bambini parlavano correntemente inglese, capivano le lingue dei genitori, nel migliore dei casi rispondevano in quella lingua. Il caso più stupefacente che deve essere di lezione secondo me a tutti i dubbiosi: padre russo, madre turca, vissuti in Canada francese per alcuni anni e trasferitisi in Nuova Zelanda: il padre parlava russo ai figli, la madre parlava turco ai figli, la famiglia nell’insieme parlava in francese e al di fuori della famiglia, con ospiti, a scuola ecc. si parlava in inglese. E nessuno faceva una piega. Come dicevo nella testa dei bambini c’è spazio per tutto.

I bambini da 5 a 11 anni: Eta’ della scuola primaria.
Questa età è leggermente più critica per un semplice motivo: in Nuova Zelanda la scuola primaria inizia a 5 anni e molti bimbi qui a quella età sanno già destreggiarsi con lettere e numeri, mentre di norma in Italia trascorrono ancora un anno alla materna.
Tuttavia ancora una volta è inutile preoccuparsi perchè esiste un programma di recupero che porterà i bambini non-English speaker a livello degli altri in tempi che variano dai 3 ai 6 mesi.
Se, come è successo a noi con nostra figlia, si arriva con un bambino di 6 anni appena compiuti che dovrebbe iniziare la prima elementare ma in Nuova Zelanda sarebbe in seconda… ecco questi programmi servono proprio a questo. Un insegnante apposta e alcuni genitori volontari si affiancano per qualche ora a settimana per fare letture di livello via via più complicato, finché non ci sarà più bisogno di loro. Lo stesso per la scrittura. Ai bambini nuovi arrivati spesso viene assegnato poi un bambino scelto all’interno della scuola che aiuta nella socializzazione e a cui ci si rivolge in caso di necessità. Quando sono arrivati dei bambini italiani nella nostra scuola i miei figli hanno fatto i tutor, loro non li hanno avuti e non è successo nulla.
I primi giorni di scuola sono i più delicati, forse meglio scegliere una scuola piccola con pochi bambini all’inizio, almeno noi abbiamo fatto così e entro 6 mesi i nostri figli di 6 e 8 anni parlavano inglese quasi come i loro coetanei. In scuole più grandi assicuratevi che ci sia il sostegno e l’attenzione necessari, se la situazione vi soddisfa va certamente bene anche una scuola più grande. Dunque i primi giorni di scuola i bimbi avranno bisogno di più sostegno: morale, saranno frustrati per non riuscire a fare quello che fanno gli altri, psicologico, non ci sono gli amici di scuola dell’Italia, fisico, la scuola neozelandese è fisicamente più impegnativa di quella italiana e i bambini kiwi sono più agili, veloci e resistenti, grazie al loro stile di vita più libero e ‘selvaggio’.
La mamma e il papà devono far capire che tutte queste differenze, vissute come mancanze, sono facilmente superabili, ci vuole tempo ma ci si arriva. Puntate magari sulla matematica, sulle scienze perché i bambini capiscano che il problema non sta nelle loro capacità, ma solo nella momentanea carenza espressiva. Tutto si risolverà presto nel migliore dei modi.
Ricordo che quando i bambini sono entrati per il primo giorno nella nuova scuola tutti i loro compagni sono arrivati a salutarli con grande affetto. Erano stati preparati al loro arrivo, sapevano che non li avrebbero capiti e si sono impegnati molto a farli sentire accolti e benvenuti. Di nuovo i gesti e il contatto fisico si sono dimostrati fondamentali. Per aiutare i bambini ad integrarsi cercate di stabilire delle relazioni con le altre famiglie della scuola e fate sì che i bambini si frequentino. Il gioco è un buon catalizzatore per la lingua orale.
Da genitore ho notato una grande differenza tra bambini introversi ed estroversi: nostra figlia che è tendenzialmente introversa ci ha messo 6 mesi ad uscire dal guscio, ma quando è uscita l’ha fatto col botto. Non e’ mai più stata zitta. Nostro figlio grande, che è invece molto estroverso, dopo 3 settimane giocava a calcio e a rugby in inglese ed è stato da subito molto veloce ad imparare a leggere e scrivere, in 3 mesi lui era indipendente.
Li abbiamo lasciati a scuola da soli dal primo giorno, anche se è possibile rimanere con loro per qualche ora, nel caso voleste farlo chiedete e vi sarà dato. Ma non è sempre necessario, anzi lasciati da soli, e magari con il loro tutor, i bambini si ingegnano e imparano a cavarsela più velocemente. D’altronde, se oltre a doversela cavare, devono anche preoccuparsi della mamma o del papà che li segue ovunque…mettetevi nei loro panni.
I compiti non sono tanti, ma assicuratevi che venga tutto capito e svolto bene, imparare bene e avere feedback positivi dagli insegnanti è importante per la loro autostima. Essere bravi a scuola, fare lo spelling tutto giusto, leggere speditamente ad alta voce davanti alla classe (oltre alla matematica e ai laboratori di scienze) significa anche sentirsi ‘uno di loro’. L’eccellenza è parte del bambino bilingue: le strategie di sopravvivenza che ha dovuto implementare a livello linguistico lo metteranno nelle condizioni di risolvere i problemi più velocemente, di trovare le soluzioni migliori, di essere più comunicativo e aperto al cambiamento. Ma soprattutto di essere più empatico e attento nei confronti dei bimbi stranieri nuovi arrivati… perché loro ci sono già passati.
Se avete tempo di preparare un minimo i vostri figli alla migrazione benvenga, magari qualche ora di inglese al pomeriggio, una ragazza alla pari in estate, filastrocche, Disney Channel, tutto va bene. Come per i bambini in eta’ pre-scolare ricordatevi che presto l’inglese prenderà il sopravvento e servirà concentrare gli sforzi sull’italiano.
Vi accorgerete anche che più il bambino è arrivato ‘grande’ in Nuova Zelanda, più il suo italiano è ricco e fluente. Ovvio. Saprà leggere e scrivere perché l’avrà imparato a scuola in Italia, quando gli chiederete qualcosa in italiano vi risponderà velocemente nella stessa lingua, con voi inizierà le conversazioni in italiano. Più il bambino è arrivato ‘giovane’, più si incepperà, avrà bisogno di parole, il suo italiano sarà magari meno ricco e tenderà a rispondere e ad iniziare i discorsi in inglese. Tutto normale. Introducete semplici letture in italiano quando la scuola in inglese non sarà più ‘un problema’ e gli insegnanti vi avranno confermato che ormai funzionano a regime.
Se doveste notare che i vostri bambini sviluppano due personalità differenti a seconda della lingua in cui si esprimono…non portateli dall’esorcista… è perfettamente normale. E’ una questione culturale, dipende da cosa assimilano e in che lingua. Noi notiamo che i nostri figli non gesticolano in inglese, ma lo fanno in italiano, i toni di voce sono diversi da una lingua all’altra: ciò significa che hanno ben chiaro il confine tra una lingua e l’altra e lo esprimono. Possiamo definirlo un ‘buon segno’.
Abbiamo parlato di differenze nella prestanza fisica: vero anzi verissimo! Si recupera col tempo, ma non sarebbe male dare un aiutino portandosi i bambini a fare un paio di km di corsa, o partire per dei giri in bici, o anche lasciarli al parco con gli altri bambini dopo la scuola perché provino a fare ciò che fanno gli altri. Iniziate presto con la piscina e, se vi sembra che ci sia la curiosità, prima si inizia con il rugby, meglio è: per il 70% il rugby è ‘testa’ e non fisico, anche se molti pensano il contrario. Il bambino italiano ha tendenzialmente molto timore del contatto fisico, non vuole far male e ha paura di farsi male, se non va non insistete. Il calcio c’è anche qui. LOL

Bambini da 12-17 anni: scuola secondaria
I ragazzini più grandi che arrivano privi di inglese hanno certamente bisogno di qualche tempo per ambientarsi, i programmi di recupero ci sono e funzionano, ma è anche vero che la famiglia può prepararli prima del grande passo. Scuola di inglese o anche scuola in inglese per un anno prima di lasciare l’Italia potrebbe essere una buona soluzione.
Certo ormai alle medie e alle superiori l’inglese si fa, ma c’è una grande differenza tra imparare delle regole grammaticali con professori per di più non madre lingua e l’esprimersi in inglese in tutte le materie. Magari la grammatica c’è, ma il lessico manca! Non pretendete che fili tutto liscio solo perché sono già grandi e “un po’ di inglese lo masticano”.
L’impatto psicologico sarà maggiore, avranno già amicizie di lunga data in Italia e sembrerà molto difficile rifarsele in Nuova Zelanda. D’altro canto le nozioni della scuola italiana li avvantaggeranno molto rispetto ai coetanei neozelandesi. Certo dovranno recuperare un po’ nella pratica, ma ci sono ragazzi molto felici finalmente di lasciare il libro di fisica per infilarsi finalmente in un laboratorio a mettere in pratica tutte le formule che prima sembravano un inutile spreco di memoria. La scuola secondaria si basa sulla socialità: ci sono club per tutto dalla danza, al teatro, dalla matematica allo spelling, dalla falegnameria alla robotica, dunque tante occasioni per socializzare, tante occasioni per parlare e farsi nuovi amici. L’inglese arriverà col tempo: che siano 6 mesi o un anno e mezzo poco importa, basta che siano felici e che non vedano la Nuova Zelanda come una punizione, una difficoltà in piu’ oltre a vedersi spuntare peli ovunque.
A questa età mantenere l’italiano non sarà un problema, partendo dal presupposto che l’italiano si parla in casa e l’inglese in tutte le altre occasioni.

E fino a qui si è parlato del bilinguismo dei bambini, dei tempi necessari, delle strategie e dei problemi che possono presentarsi, ma cosa succede agli adulti?

Casa in Italia

Casa in Italia

Sono proprietario di una casa in Italia, come calcolo l'IMU e le altre tasse sulla casa? Che aliquote applico? Sono iscritto all'Aire e ho una casa in Italia

Boring Bits

Boring Bits

Eccovi qui!
​Se state leggendo questa parte. allora vuol dire che ci siete dentro!
Pronti ad affrontare l’esperienza delle scuole superiori in Nuova Zelanda?
Per amor di chiarezza, ho cercato di includere dei paragoni con l’esperienza italiana, ma sono passati un po’ di anni da quando sedevo dietro i banchi e, forse, qualcosa nel frattempo è cambiato: perdonate, quindi, le inesattezze e godetevi la parte sulla scuola kiwi! Home Hogwarts Iniziamo con alcune informazioni di ordine generale:

  1. La scuolainizia i primi di Febbraio e finisce, per i Juniors, attorno al 10 di dicembre e, per i

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Dunedin, la scozzese

Dunedin, la scozzese

Dunedin

Otago Uno dei più antichi insediamenti Europei in Nuova Zelanda, ma anche terra di una delle più importanti tribù maori insediatesi nell’isola del sud, i Ngai Tahu, Dunedin è una città dai molti nomi a seconda delle diverse culture che hanno contribuito alla sua storia.
Ōtepoti in Maori, Dùn Èideann in Gaelico Scozzese, Dunners per gli Scarfies (google it), (Dun)edinbourgh, L’Edimburgo del Sud, per i nostalgici, Dunedin è una città con un’anima e una personalità forti, forse anche un po’ ruvide.ImmagineDunedin ha visto prosperità e crisi, che corrispondono agli anni del Gold Rush di fine Ottocento e la crisi industriale della fine degli anni ’90. Ruolo centrale nelle sorti di Dunedin ha avuto l’Università dell’Otago (fondata nel 1861), l’università più a sud del mondo e prima nata tra le quelle neozelandesi, con i suoi milioni di dollari di profitto, investimenti immobiliari (Colleges e student flats) e squadre di rugby (Highlanders). Quando l’industria ha iniziato il suo declino dato dal cosiddetto North Drift, lo spostarsi a nord, delle imprese e delle persone, la città si è reinventata come heritage city, fashion town, città degli artisti e, soprattutto, campus universitario.
Dunedin è una città enorme per estensione, si dice che sia la quarta al mondo dopo Città del Messico, ma con soli 130mila abitanti, meno di 40 persone per km quadrato. Di fatto dopo essere entrati entro i confini cittadini di Dunedin per una trentina di km non si vede neanche una casa, poi scollinando ci si trova di fronte ad un’estensione di casette monofamiliari con giardino che arrivano fino al mare dell’Otago Harbour e oltre fino all’Oceano Pacifico.
Dunedin ha bellissime testimonianze architettoniche dei suoi anni d’oro: gli edifici neo-rinascimentali come la Dunedin Railway Station, l’edificio più fotografato della Nuova Zelanda, e la Clock Tower del campus universitario (a destra).

ImmaginePoi ci sono le chiese e i teatri (ex chiese riadattate secondo la migliore tradizione post Enrico VIII): la cattedrale di Saint Paul, la First Church, il Regents Theatre (che è un gioiellino… soprattutto i bagni) e il Fortune Theatre.
Caratteristiche di Dunedin sono anche le vie commerciali in stile far west, con i frontoni colorati e il patio per coprire il marciapiede di fronte ai locali. Tutti preferiscono passeggiare per le vie del centro, ovviamente tutti i negozi ‘griffati’ e gli atéliers dei designers si trovano là, ma anche Dunedin South non è male per gli acquisti second-hand di abiti, dischi e mobili.
Poi ci sono gli edifici art déco, molte sono abitazioni ma altri ora sono stati riadattati a musei, ad esempio il Toitu Settlers Museum che si trova nella stazione degli autobus costruita negli anni ’20.
Ci sono anche edifici moderni in vetro e acciaio che ospitano musei e dipartimenti universitari e poi sono diffuse le schifezze anni ’70, che sono universalmente schifezze, in tutto il mondo. Tipo l’ospedale, che è una catastrofe per gli occhi e l’arts building dell’università che su google immagini compare in tutt’altre forme probabilmente per vergogna.
Qui a Dunedin c’è anche l’unico castello della Nuova Zelanda, il Larnach Castle, con i suoi giardini e le sue leggende (per turisti, come è per turisti il prezzo del biglietto).
Non potrebbe mancare il britannicissimo giardino botanico con l’aviary pieno di pappagalli e uccelli colorati, il giardino dei rododendri, il giardino delle erbe, la serra tropicale e la sezione delle piante carnivore.
Qui si trova anche la strada più pendente del mondo, Baldwin Street, in cui i turisti passeggiano ad ogni ora del giorno e della notte, gli studenti si lanciano sui carrelli della spesa e gli scemi tentano di guidare coi camper (e poi si ribaltano).

Immagine ImmagineSu Baldwin Street si tiene anche la Jaffa Race, in cui si lanciano parecchie migliaia di caramelle numerate (ripiene di cioccolato all’arancia) giù per la strada: la prima ad arrivare corrisponde ad un premio per chi ha comprato il biglietto col numero corrispondente. Il tutto condito da colpi di caramella in faccia ad una velocità media di 70km all’ora e turisti che piangono perchè nel tentativo di filmare la discesa con Ipad, un Jaffa particolarmente stronzo gli ha forato da parte a parte lo schermo.
Detto per inciso qui a Dunedin Jaffa non è solo la caramellina… è anche l’acronimo di Just Another Faggot Fucking Aucklander (tanto per buttarsi sull’omofobico, per fortuna ultimamente hanno tolto la F di Faggot), cosa che la dice lunga sul rapporto idilliaco tra Auckland e gli Aucklanders e il resto del paese. Altri interessanti eventi: Dunedin Fringe Festival, Toga Party, Hyde Street Party, Zombie

ImmagineRun, Young Writers’ Festival, Matariki Festival, Midwinter Carnival… trovate tutto sul sito Dunedinnz.com.
Ma Dunedin è soprattutto famosa per la sua fauna… non capita tutti i giorni di fare una passeggiata sulla spiaggia cittadina ed inciampare sui pinguini o venir rincorsi da permalosissimi leoni marini che vogliono accoppiarsi con la vostra giacca nera che incautamente avete lasciato su un angolino di spiaggia per andare a bagnarvi i piedi. Non solo, se magari in una giornata particolarmente calda decidete di fare un bagno in piscina potreste trovarvi il leone marino come compagno di idromassaggio. (Foto scattata da Balazs Kiglics).

ImmagineE lo stesso vale per gli squali, le orche, le balene e i delfini…gli squali ci sono ma non si registrano attacchi da molti anni, proprio perchè i leoni marini sono molto più grassi e saporiti dei surfisti…tutti muscoli e capelli al vento.

Dunedin sta diventando famosa anche per i bellissimi murales, d’altronde ci sono stati anni bui (e non è detto che siano finiti), per cui molti edifici industriali o vecchi magazzini e hotel ora inutilizzati stanno lentamente rinascendo grazie alla caccia al murales. I turisti vagano per i vicoli meno frequentati alla ricerca delle opere d’arte e gli imprenditori sono incoraggiati ad aprire locali, restaurare facciate e iniziare attività grazie al notevole aumento di passaggio. Una cosa molto buona per la città.
Visitate il sito dello Street Art Trail!

Insomma la città sta riscoprendo lentamente la sua identità post-industriale, teste di rapa e ignoranti permettendo, come in ogni parte del mondo… mica tutti sono d’accordo ad avere un murales sulla parete del proprio palazzo, ma per ora sono stati messi a tacere dalla maggioranza dei cittadini.

Per tutto quello che vi ho raccontato finora il vostro punto di riferimento deve essere il sito del Dunedin City Council se siete cittadini oppure l’info point turistico se siete in viaggio di piacere.. Con questi strumenti è facile organizzare un tour della città e dei dintorni e vi assicuro che ne vale la pena. Occorre la macchina però, mi raccomando, non un 4 ruote come molti turisti asiatici credono, anche una piccola utilitaria va bene, ma l’importante è che abbiate modo di spostarvi autonomamente. In estate guidate con cautela, ci sono molti turisti inesperti alla guida e d’inverno il famigerato black ice vi potrebbe catapultare nell’acqua della baia alla prima curva.

Da parte mia vi consiglierei di vedere il centro dalla città, magari qualche murales, visitare la mitica Speights (lo stabilimento della birra più famosa della NZ) e poi fare un salto nei dintorni (Moeraki, Doctor’s Point, Tunnel Beach, Sandfly Beach, Lovers’ Leap, Victory Beach, Allan’s Beach, Saint Clair o Saint Kilda Beach). Fate un salto al pub di  Portobello, o all’Esplanade di Saint Clair a mangiare un’ottima pizza italiana come si deve e poi andate alla Speights a bervi un birrone accompagnato da wedges con panna acida e salsa thai.

Qui sotto una foto da Portobello verso Mount Cargill dalla Stupa tibetana (unico tempio consacrato dal Dalai Lama in Nuova Zelanda e forse anche nell’intero emisfero sud).

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Chi invece ha intenzione di trasferirsi quaggiù è utile che conosca alcune informazioni più centrate sulla famiglia. Partendo dalle scuole, passndo per il mercato immobiliare, i luoghi di vacanza, la gestione della famiglia.
Le scuole di Dunedin sono in generale molto buone, hanno tra le migliori performances del paese in quanto a matematica e lingua. Gli insegnanti sono in media abbastanza preparati, abbastanza… ogni tanto fanno errori anche loro, ma vi assicuro che rispetto alla media sono ottimi insegnanti. Le scuole sono ben fornite di materiali, risorse informatiche e spazi esterni dove praticare sport o semplicemente stare all’aperto. I bambini sono solitamente molto contenti di andare a scuola e ogni tipo di difficoltà linguistica viene risolta in meno di 3 mesi, in qualche caso si parla di poche settimane.
Qui il link con l’


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