A Wellington Giulia a Filippo hanno un lavoro affascinante, una bella casa loro e un vasto giro di conoscenze ed amicizie. La loro potrebbe essere giustamente definita come “una storia di emigrazione di successo”. Un successo conquistato con tenacia, perché – nonostante fossero partiti dall’Italia con i ferri del mestiere in tasca – la strada è stata tutt’altro che in discesa. Soprattutto dal punto di vista lavorativo.
In fin dei conti, erano i soliti ragazzi giovani con un Working Holiday e Giulia, come quasi tutti gli italiani arrivati qui con un visto di vacanza-lavoro, nei primi anni per lo più lavorava nella cosiddetta Hospitality. Insomma: “giovani, carini e poco occupati”. Però, a differenza di molti altri, c’erano dei sogni nel cassetto.
C’è quindi da crederci quando Giulia dice che all’inizio è stata dura. E’ stata dura, ma – aggiunge – era felice. Si sa, il tempo è galantuomo e a distanza di anni, quando finalmente i tasselli sono andati tutti al loro posto, guardi al passato con un po’ di indulgenza. Perché sì certo: un lavoro è un lavoro, uno stipendio è importante, ma i desideri erano altro rispetto al vendere zuppe o lasagne.
Quando è atterrata in Nuova Zelanda, Giulia aveva un portfolio lavorativo di tutto rispetto potendo vantare diverse esperienze importanti come quella presso la Austin Film Society, in Texas, e le numerose collaborazioni in Mediaset. Eppure ha faticato.
“L’ostacolo più grosso è stato non avere la residenza, da quando l’abbiamo ottenuta è stato tutto più facile: ora sono già 3 anni che lavoro in uno studio di post produzione e mi trovo benissimo, era il mio background in Italia e fortunatamente sono riuscita ad metterlo a frutto anche in Nuova Zelanda.”
Sì, “fortunatamente”. Perché contro una fortuna avversa non si può quasi nulla, però la costanza e la determinazione sicuramente hanno aiutato!
L’idea di partire è emersa durante una serata invernale in pizzeria. Oh, non illudetevi: non era affatto una cena romantica tutta coccole e occhi dolci. Si trattava piuttosto di una pizza riparatrice. Nel frigorifero di casa si sentiva l’eco.
Gli sembrava di vivere per lavorare. O meglio, per lavorare e guidare nel traffico di Milano. “E no, così non va!”
Allora, mappamondo in testa, Giulia e Filippo iniziano a depennare i paesi dove non si parla inglese, perché già emigrare è dura, se ci metti anche il fatto di ricominciare da capo anche con la lingua, be’, allora finisci davvero per complicarti la vita!
Regno Unito ed Irlanda scartati subito perché troppo vicini a casa.
Stati Uniti no, perché già sperimentati.
Il Canada è stato per un po’ una possibile meta, perché Filippo è un grande amante della natura e adora pescare, ma alla fine ha prevalso l’idiosincrasia di Giulia per il freddo. Così, tra Australia e Nuova Zelanda, la scelta è ricaduta sul paese in cui – tendenzialmente – era più semplice ottenere un visto di lavoro.
E, quindi, Nuova Zelanda è stata! Decisione presa nel tempo di una pizza e poi un anno intero per metterla in pratica.
Da quella famosa cena, hanno iniziato a lavorare per risparmiare.
Sono partiti dicembre 2005 con un Working Holiday destinazione Auckland. Se quella era la Nuova Zelanda, ecco… forse avevano sbagliato: tutti quei palazzi, quel cemento, il traffico. E allora via! Verso altri lidi! Quattro mesi on the road dal punto più settentrionale di Cape Reinga fino al profondo sud nella Steward Island per scoprire quale città neozelandese faceva per loro, quella che rispondeva “sì!” alla domanda implicita che si portavano dietro: “Ma tu, qui, ci vivresti?“.
Perché va bene amare la natura e la tranquillità dei paesini bucolici, però anche un cinema, che so, un teatro mica avrebbero fatto schifo.
Con Wellington è stato amore a prima vista. Nonostante il vento!
Wellington ha il fascino della capitale senza averne le dimensioni e lo stress. Moderna e allo stesso tempo tradizionale: ci si saluta con gli sconosciuti e si ringrazia l’autista del bus quando si scende; si scambia sempre una chiacchiera con il cassiere, il cameriere o l’impiegato della banca ti chiedono come stai, come in un un paese di periferia. Eppure è la capitale, multietnica e multiculturale, viva e frizzante, dove puoi perderti nei festival del cinema francese e italiano, festeggiare il capodanno cinese, sperimentare tutte le cucine del mondo e divertirti alla dimostrazione di capoeira brasiliana.
Lo abbiamo già detto, all’inizio non è stato facile. Il lavoro dei sogni non arrivava e ad integrarsi ci si mette sempre un po’. Si deve ricominciare tutto da capo, a fare amicizia, a capire dove fare la spesa, quale compagnia elettrica usare, perdersi per la città perché ancora non ci si orienta e sbagliare autobus finendo chissà dove. Ma è solo questione di tempo. Un po’ alla volta gli amici te li fai, kiwi, russi, coreani, cileni, canadesi malesi, indiani e, ovviamente, italiani! La tua costanza viene premiata ed eccoti a lavorare dove volevi. E infine arriva anche la casa, proprio come la desideravi, vicino a tutto, vicino al mare, al lavoro e ai negozi e il ricordo del pendolarismo milanese – tra autobus, metropolitana, macchina e nebbia – diventa sempre più un ricordo sbiadito.
Quello che invece non ci si riesce proprio a dimenticare è dove sta la leva delle frecce nelle auto italiane: ogni volta che Giulia deve svoltare, ecco che si dà una bella spazzata al parabrezza!
Tornerete prima o poi a vivere in Italia?
Giulia alza le spalle. Tutto può essere, risponde. Ci sono piccole cose che le mancano, come comprare un Dylan Dog in edicola o ascoltare il motoGP alla domenica pomeriggio con il commento di Guido Meda, ma lo stile di vita che ha trovato a Wellington, quello per ora non lo cambierebbe con nulla al mondo.