“Whale Rider”, 2002, di Niki Caro, tratto dal’omonimo romanzo di Witi Ihimaera
È la storia di Paikea, una ragazzina māori che sfida le regole e le tradizioni per affermarsi capo della sua tribù. Perché lei, nonostante sia femmina, è la diretta discendente del mitologico Paikea, che – dopo essere giunto in Nuova Zelanda a dorso di una balena – ha fondato le tribù Ngāi Tahu e Ngāti Porou.
D’altro canto è risaputo: nomen omen e lei ce lo dimostra chiaramente.
Va bene, il film cammina – incerto e tentennante – sulla sottile linea che divide la favola formativa per ragazzi dal cinema d’autore.
Va bene, a volte la storia, quando non si perde in omissioni ed incongruenze, concede troppo al didascalico e al convenzionale.
È vero: “La ragazza delle balene” poteva essere un film straordinario e invece finisce con l’essere un film carino” [Renato Massaccesi].
Però, appunto, carino lo è, anzi, molto carino e la fotografia magnifica, le suggestioni coinvolgenti e il messaggio positivo.
Perché le tradizioni sono identità, ma non per questo bisogna assumerle apoditticamente, seguirle acriticamente e crederci dogmaticamente. La vita, la legge, le regole, così come le tradizioni, sono fluide, come l’essere umano, e si adattano e si modellano, cambiano ed evolvono. Pai incarna il compromesso tra la visione conservatrice del nonno e il rifiuto incondizionato del padre e rappresenta la sintesi equilibrata tra i due contrapposti orientamenti.
Il film è ambientato a Whangara [leggasi Fangara], esattamente la piccola località dell’Isola del Nord, tra Gisborne e Tolaga Bay, dove – si narra – arrivò, a dorso di balena, il mitologico Paikea.