Non chiamateci cervelli in fuga
Massimo e Viviana a Christchurch

Se c’è una cosa che mi fa imbestialire è il termine “cervelli in fuga”. Ormai è automatico, dici “vivo all’estero” e ti rispondono “un cervello in fuga, eh?”
No, io non sono un cervello in fuga.
Se sul lato del “cervello” non sono mica sicura, per quanto riguarda la fuga devo dire che sono sicurissima; non sto fuggendo proprio da nulla.

È vero: ho una laurea in legge e un dottorato in Diritto costituzionale, ma questo farebbe di me un “cervello”?
In Italia faticavo a trovare la mia posizione nel mondo del lavoro. Sarà stato per colpa dell’infelice congiuntura economica o forse sono io a non essere poi così brava, ma per me nulle erano le possibilità di carriera in ambito accademico e assai problematico si è manifestato anche l’assorbimento da parte della cosiddetta società civile. Fuori dell’ambiente universitario, infatti, se già un costituzionalista è praticamente inutile, figuriamoci poi una con il pallino per i diritti umani! Di una giurista che ha sempre scritto di tortura, renditions, crimini internazionali che te ne fai? E poi, “scritto” per l’appunto, decisamente troppo teorica ed non interessante nemmeno per le organizzazioni non governative impegnate nella promozione dei diritti.

Nemmeno Massimo, il mio compagno, si sente un cervello in fuga.
Lui è un geologo e in Italia era libero professionista. Nei sette anni di attività, lo studio associato di cui era titolare sopravviveva, vivacchiava, galleggiava. Tra alti e bassi, tra clienti che pagavano e quelli che si prendevano i loro tempi, con comodo, giostrandosi tra le tariffe professionali e la vita reale.

​Da aprile 2013 viviamo in Nuova Zelanda e non ci sentiamo affatto dei cervelli che sono fuggiti a gambe levate dal proprio paese.
Siamo tante cose – due professionisti, una coppia di fatto per la madre patria e una famiglia per l’ordinamento neozelandese, degli snowboarders, dei vespisti, dei buoni amici e si potrebbe continuare di questo passo – ma non ci sentiamo affatto dei genietti snobbati e bistrattati dal quel liso stivale da cui saremmo scappati senza guardarci indietro.
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Certo, se fossimo stati professionalmente soddisfatti, forse – e dico forse – non avremmo iniziato a coltivare l’idea di partire. Però, alla fine, la decisione di andarcene ha avuto ben poco da spartire con la voglia di fuga. È stata una miscela esplosiva di desiderio di allontanarsi, bisogno di mettersi alla prova e curiosità verso qualcosa di nuovo.

Volete sapere come è nato?
Alla faccia dei “cervelli”, tutto ha preso corpo mentre giocavamo a Dungeons & Dragons. Tra un tiro di dado e un passaggio di livello, è stato il nostro Dungeon Master ad accennare al sistema di immigrazione neozelandese, alla Skilled Migrant Category. Così, il seme dell’emigrazione si è annidato nella parte inconscia dei nostri cervelli e lì è rimasto a lungo sopito, sebbene debitamente annaffiato dalle varie insoddisfazioni professionali, per poi riaffiorare improvvisamente quando un giorno – per curiosità – abbiamo iniziato a navigare in rete alla ricerca di informazioni.
E, buone notizie, le nostre professionalità sembravano essere richieste!

Dal primo accesso al sito Immigration New Zealand all’imbarco per la terra dei kiwi sono passati quasi due anni durante i quali abbiamo imparato a memoria il sito dell’immigrazione, ci siamo affidati a dei immigration advisers e abbiamo risparmiato quanto più possibile.
Perché emigrare non è affatto economico.
Soprattutto per chi, come noi, non parte con già in tasca un’offerta di lavoro. Noi, la nostra occasione ce la siamo andati a cercare sul campo, mettendo in gioco tanto, rischiando di fallire e di tornare a casa scornati. Con un mare di fotografie di un posto da favola, con una vacanza da sogno nella terra dei kiwi, ma pur sempre scornati. E al verde.
Perché, e su questo punto voglio essere assolutamente chiara, emigrare in Nuova Zelanda non è la conquista del West degli Stati Uniti dell’Ottocento: qui non si tratta di venire a colonizzare una terra desolata e inabitata portando qualunque professionalità si possieda con la speranza di reinventarsi una vita, di ricominciare da capo. Con le dovute eccezioni, un immigrato entra in Nuova Zelanda grazie al suo background professionale e sempre che questo sia richiesto. Se non hai nessuna competenza ben definita o se di essa non c’è carenza, allora due sono le ipotesi: 1) hai l’età per chiedere il working holiday e, allora, benvenuto per 12 mesi (e poi chissà) oppure 2) è assai arduo ottenere un visto di lavoro. Perché la regola qui è “Kiwi first”, ovvero se in Nuova Zelanda vi è anche solo un suo cittadino che possa svolgere quel lavoro, allora questo avrà la precedenza.
Mettici, poi, che la tua lingua madre è ovviamente un’altra …

Ma la fortuna è stata dalla nostra parte. Sì, la fortuna. Perché per emigrare ci vuole, ovviamente, preparazione, competenze professionali, conoscenza delle possibilità e dimestichezza con la lingua, ma, poi, è necessaria anche una buona dose di cu… ehrm, fato favorevole, ché essere nel posto giusto al momento giusto non è cosa da poco.
Noi eravamo in coda sul ponte di Auckland quando abbiamo letto sulla fiancata di una macchina il nome di una ditta di perforazioni. Preso giù il riferimento, cercato su internet, spedita la mail e nel giro poco ecco che arriva la telefonata con l’offerta di lavoro: in quegli stessi giorni si era licenziato il loro geo environmental engineer e stavano iniziando a considerare l’idea di assumerne un altro. Quando si dice le coincidenze!
Poi, siccome, evidentemente, eravamo a credito di fortuna, la posizione professionale rientrava tra quelle ricomprese nella Long Term Shortage List e la ditta era accreditata presso l’immigrazione. Questo ha comportato, da un lato, il non dover provare la mancanza di candidati neozelandesi idonei per quella mansione e, dall’altro, un visto di due anni e mezzo con percorso agevolato verso la residenza (Work to Residence Visa).

Così eccoci qui a vivere Christchurch.
Massimo ha un lavoro che gli piace e da cui trae molte soddisfazioni: accanto ad un bell’ambiente lavorativo e a ritmi rilassati, in cui la qualità è preferita alla quantità, vi è anche il piacere di essere coinvolti nel mastodontico progetto di ricostruzione di Christchurch, la britannicissima “città giardino” neozelandese distrutta dai terremoti del 2010 e 2011. Mettiamoci, poi, che dopo otto mesi ha ricevuto anche una promozione e la soddisfazione è massima.
Io, invece, fatico ancora a trovare la mia posizione. Forse una laurea in legge di un ordinamento di civil law e un dottorato in Diritto costituzionale italiano non sono di grande supporto in un paese di common law con una Costituzione non scritta e flessibile.
Poi, come già sperimentato in Italia, molti potenziali datori di lavoro vivono il titolo di dottore di ricerca come un deterrente perché dopo tanto studio avrai – giustamente – delle ambizioni e non ti accontenterai del lavoro che ti possono offrire. Insomma, overqualified per le posizioni professionali “normali”, ma praticamente irrilevante per l’Accademia neozelandese anche perché tutto ciò che hai pubblicato è scritto nella lingua di Dante. Nobile quanto si vuole, musicale certamente, ma qui del tutto ignota.

Rimpianti? Pentimenti?
Assolutamente no. La nostra è stata una decisione di coppia: volevamo migliorare le nostre vite, soddisfare le nostre curiosità e conoscere il mondo, insieme, e ce l’abbiamo fatta. Viviamo in un paese paesaggisticamente stupendo, dove la gente è molto cortese e lo stile di vita assai rilassato. È un’esperienza che ci mette quotidianamente alla prova e ci fa crescere sia professionalmente che umanamente, come persone e come coppia. Perché, mentre Massimo è in ufficio – ma solo dopo aver intasato le poste elettroniche di potenziali datori di lavoro –, mi diletto con il volontariato: mi riempie il tempo, appaga la mia propensione verso il sociale ed allarga anche il cerchio delle nostre conoscenze.
Le conoscenze, ecco il vero punto dolente di tutta questa faccenda!
È quasi inutile dirlo, credo che sia un sentimento comune tra gli espatriati, ma ciò che ci manca di più sono gli amici. Non sentiamo nostalgia del parmigiano, del prosciutto o del prosecco e sebbene il bidet sia motivo di continui rammarichi e infinite lamentele, quello a cui è davvero difficile abituarsi è la lontananza dagli affetti.
È vero: la tecnologia ha accorciato le distanze, abbiamo Skype, il VoIP, WhatsApp, Facebook e teniamo tutti aggiornati tramite il nostro blog, però ovviamente non è la stessa cosa. Gli amici si sposano, fanno figli e festeggiano avvenimenti a cui è impossibile partecipare perché abbiamo scelto di vivere dall’altra parte del mondo, così lontano che rientrare ci costa 2 giorni di viaggio e – almeno – 1200 € di biglietto a testa.
Lo sapevamo prima di partire, lo avevamo messo in conto, ma viverlo è diverso.

A questo punto una domanda è d’obbligo: torneremo mai in Italia o resteremo qui a vivere per sempre?
È molto difficile dirlo adesso, per ora sappiamo che ci fermeremo per un po’, chiederemo la residenza neozelandese, ma poi chissà: il mondo è così grande e c’è tanto da scoprire.
Non trovate, ad esempio, che il Canada eserciti un certo qual fascino?

Aggiornamento 2016

Quando ormai mi ero rassegnata a vivere la vita della desperate housewife e mi ero riempita le giornate con tutte le attività del mondo; quando ormai mi ero iscritta al corso di maori il lunedì, a quello di inglese il martedì e il sabato e in piscina il mercoledì e il giovedì, rigorosamente dopo aver prestato il mio aiuto al Museo di New Brighton per la sua evoluzione digitale (benvenuti nel XXI secolo!); quando ormai avevo dato la mia disponibilità per aiutare da un lato il Com.It.Es. con il progetto sulla documentazione dell’immigrazione italiana in Nuova Zelanda e, dall’altro, la Dante Alughieri di Christchurch con il sito web e la Newsletter; quando avevo ormai inaugurato il mio fortunatissimo Italian Book Club, ecco che ho torvato un lavoro! Pegasus Post, 19 Ottobre 2015 Pegasus Post, 19 Ottobre 2015 Ed il bello è che non si tratta di un lavoro qualsiasi ma di uno dei lavori che ho sempre sognato. Ha a che fare col sociale, soddisfa le mie aspirazini per contribuire ad un “mondo” migliore, più inclusivo, più guiusto e asseconda la mia inclenazione per l’ordine.
Sono la coordinatrice del Phillipstown Community Hub. Il lavoro è assai vario e mi permette di calarmi a pieno nella scoietà neozelandese, confrontandomi con molti dei suoi aspetti più inquitetanti e sconcertanti.
Insomma, nonostante tutto, anche in questo caso la fortuna non ci ha abbandonato e il Canada si fa sempre più lontano!
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